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AI Voice AudioBook: Le tragedie, gl'inni sacri e le odi di Alessandro Manzoni by Alessandro Manzoni

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LE TRAGEDIE, GL’INNI SACRI E LE ODI DI ALESSANDRO MANZONI

IL DECENNIO DELL’OPEROSITÀ POETICA DI ALESSANDRO MANZONI

I.

Giova fissare alcune date. Il Carme in morte dell’Imbonati, la prima delle sue opere che il Manzoni reputasse degna della stampa, fu pubblicato a Parigi nel 1806. L’Urania, a Milano nel 1809. Poi, dopo un intervallo di sei anni, a Milano nel 1815, i primi quattro Inni sacri: la Resurrezione, composta il 1812, il Nome di Maria e il Natale, del 1813, la Passione, del 1815. Dopo altri cinque anni, la prima tragedia: Il Conte di Carmagnola, Milano 1820; e nel 1822, la seconda, l’Adelchi. Nello stesso anno, il quinto ed ultimo inno sacro, la Pentecoste. Intanto era venuto componendo: il proclama di Rimini, aprile 1815; lo scherzo L’ira d’Apollo; l’ode Marzo 1821, e il Cinque maggio. Dagli ultimi mesi del 1821 agli ultimi del 1827, il Manzoni fu tutto preso dalla composizione, correzione e stampa del Romanzo. Versi, dopo la Pentecoste, o non ne scrisse più o ne scrisse di tali (l’Epigramma sotto il ritratto del Monti e le Strofe per una prima comunione) che mutano in certezza il sospetto, che la bella e limpida vena si fosse presto essiccata.

L’Imbonati e l’Urania sono, per così dire, i documenti ufficiali di quello che io ebbi a chiamare «il noviziato poetico» del Manzoni: rappresentano autorevolmente il periodo dell’incertezza e delle titubanze, dei passi ricalcati sulle orme altrui, dell’imitazione tra pariniana e alfieriana, soprattutto montiana. L’Urania non era ancora pubblicata (solo il 5 ottobre il Manzoni avvertiva d’aver ricevuto da Milano i primi esemplari della stampa), e già il poeta se ne mostrava scontento. All’amico Fauriel, che aveva voluto prender copia di quel poemetto (a lui forse anche più caro, dacchè Urania, tra i frequentatori della Maisonnette, era chiamata la dea del luogo, la bella Sofia vedova del Condorcet), egli scriveva da Parigi il 6 settembre 1809:

«Vous avez donc voulu copier cette petite rapsodie? Vous! Si j’avais à présent l’envie et l’indiscrétion de vous occuper de ces balivernes, je dirais que je suis très mécontent de ces vers, surtout pour leur manque absolu d’intérêt. Ce n’est pas ainsi qu’il faut en faire; j’en ferai peut-être de pires, mais je n’en ferai plus comme cela».

Di versi così, con tutto quel lusso di evocazioni e di fantasie mitologiche, con quelle eleganze corinzie nel disegno e quelle sonorità attiche o alessandrine nell’espressione, ne avrebbero, sì, continuato a fare il Monti e il Foscolo; ma la sua via, la via nuova che oramai egli aveva intravista, era un’altra: e per quella ei si sarebbe messo, risoluto di percorrerla tutta. Via erta ed arta, nè prima tentata; ma meglio cadere nell’ardimentosa ascesa verso l’alta cima agognata, che ricalcare l’ampia strada tanto e da tanti battuta:

S’io cadrò su l’erta, Dicasi almen: su l’orma propria ei giace.

E, proprio com’egli aveva sentenziato nell’Urania (versi 191-93),

baldanza a quel voler non tolse Difficoltà, che a l’impotente è freno, Stimolo al forte.

II.

L’Urania è un inno, ricalcato sul modello di quelli che vanno sotto il nome d’Omero. Il poeta implora dalle Grazie («chieggo a le Grazie») che lo facciano riuscir gradito anche a Firenze. Ma nè chiama Firenze tranquillamente Firenze, nè chiama Milano semplicemente Milano: non sarebbe stato un proceder degno di chi ambiva al «nome che più dura e più onora»! Uno che se n’intendeva, il Monti, il caposcuola, aveva difatto insegnato: «Occorre parecchie volte al poeta di dover nominare una cosa, il cui semplice nome o non ha tutta in sè stesso la poetica dignità, o ripugna alle leggi del metro, o desta un’idea non abbastanza sublime e maravigliosa.... Nè senza l’aiuto di questi favolosi amminnicoli la lingua poetica si sosterrebbe». Il novizio Manzoni proemia dunque, con perifrasi solenni e sonore, così:

Su le populee rive, e sul bel piano Da le insubri cavalle esercitato, Ove, di selva coronate, attolle La mia città le favolose mura, Prego, suoni quest’Inno: e se pur degna Penne comporgli di più largo volo La nostra Musa, o sacri colli, o d’Arno Sposa gentil, che a te gradito ei vegna Chieggo a le Grazie.

E continua. Fin dai primi anni, quando il Desiderio ci è compagno crudele nel cammino della vita, ho nutrito una cara speranza: che l’Italia annoverasse me pure tra’ suoi poeti. L’Italia, che da lungo tempo è ospizio delle Muse; non già la culla, poichè esse nacquero in Grecia. Ma quando queste dive lasciarono i laureti achei, esse sdegnarono di porre la nuova dimora altrove che qui. È vero che vi rimasero mute

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