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AudioBook: Storia degli Italiani, vol. 15 (di 15) by Cesare Cantù
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DEI PARLARI D’ITALIA
"Sermonem Ausonii patrium, moresque tenebunt." VIRGILIO.
§ 1º
Proposizione.
Senza toccare le origini del parlare, che è il problema capitale nello studio dell’uomo, avvertiremo solo come nel linguaggio trovasi una convenzione tacita per designare le cose stesse colle stesse parole, esprimere gli stessi giudizj colle stesse forme grammaticali; onde bisogna supporvi condizioni fisiologiche, val a dire un organo per produrre i suoni elementari, vocali o consonanti; un organo di udito per raccoglierli dalla bocca altrui e dalla propria; e condizioni soprorganiche, cioè un’attività volontaria per mettere in moto gli organi fonici, e ripetere con intenzione i suoni semplici o complessi che ciascuna lingua ammette; inoltre un’intelligenza capace di idee generali e di una coordinazione per istituire delle radicali, per recarle ad associazioni o derivazioni, per istabilire regole di sintassi.
V’è dunque alcuna cosa nell’uomo che lo fa, non solo superiore, ma essenzialmente diverso dal bruto; nè, speriamo, si dirà inopportuno il cominciare da tale protesta.
Dalla quale raccogliendoci allo scopo del presente lavoro, diremo come tre opinioni diverse corrono sull’origine dell’italiano. L’una che, per l’irruzione de’ Barbari, la lingua latina sia stata mutata e lessicamente e grammaticalmente, fino ad originarne una nuova, questo vulgare nostro; è il sistema di Castelvetro, Muratori, Raynouard, Max Müller. L’altra, che sia il latino, svolto sotto gl’influssi degli idiomi indigeni nei paesi ove quello fu portato dalla conquista; sistema del Fauriel. La terza, che questo nostro volgare sia il latino anticamente parlato, non cangiato di essenza e di natura, ma soltanto modificato dal tempo e dagli accidenti.
Noi intendiamo provare che l’italiano non è se non l’alterazione naturale della lingua che usava il Lazio antico: sicchè la legge di continuità, dal Leibniz stabilita nella fisica, e quella dell’evoluzione, oggi in moda, avveraronsi anche nell’idioma nostro; non sovvertimenti improvvisi, ma successivi svolgimenti, conformi ai metodi con cui lo spirito umano crea, usa, trasforma la parola, e perciò somiglianti a quelli d’altri linguaggi. Tale è la nostra opinione, e cercheremo dimostrarla storicamente, seguendo l’alterazione passo passo dall’età arcaica e traverso al medioevo, sin quando, verso il 1200, anche nelle scritture si adoperò la nuova forma che si costituiva, insieme coll’antica che si sfaceva. E al modo che l’Ausonia, l’Enotria, l’Esperia si chiamò Italia senza per questo mutarsi, così la lingua latina cangiò il nome in italiana. Venuta a mano degli scrittori, i più insigni tra questi, per un sapiente caso, furono toscani, e adoperarono francamente la propria favella, mentre a questa cercarono accostarsi coloro che parlavano altri dialetti; onde ebbero assicurato al toscano il vanto di lingua nazionale tipica.
Meramente scolastico non crederà questo studio chi sappia che la storia della parola è storia dello spirito umano e talora segna le epoche. Questo solo noi vogliamo, senza ardire di inoltrarci in quella nuova filologia, che studia il linguaggio nelle sue relazioni collo spirito umano, negli elementi costitutivi delle favelle, nell’interna loro struttura; nell’attenzione ai dialetti, nell’indagine paleontologica, che tanto innanzi portò la prova della evoluzione delle lingue, e insieme tanto profittò all’etnografia, all’archeologia, alla conoscenza delle religioni. Noi ci limitiamo ad uffizio di storici.
§ 2º
Lingue de’ prischi Italioti.
Allorchè, sul terminare del medioevo, si rintegrò lo studio dell’antichità, poteasi rivolgere l’attenzione alle prische lingue, mentre tanta ne costava il purgare la latina? Ma dopochè la filologia fu ajutata da ricca messe di nuovi documenti, parve vergogna il porre all’indiano o all’egizio maggior cura che non ai parlari italiani antichi, e i dotti vi applicarono quell’assiduità che merita tutto ciò che avvicina alla cuna d’una lingua com’è la latina, studiata da tutt’Europa perchè ha monumenti in ogni paese, dal lembo dei deserti africani sino ai perpetui geli polari.
Però l’interpretare iscrizioni in favelle che non si conoscono e con caratteri per lo meno incerti, richiede circospezione insieme ed ardimento, quali non sempre accoppiarono i moltissimi che, ai dì nostri, assunsero questo tema. Le conchiusioni, a cui arrivano questi e gli altri laboriosi cercatori, differentissime, eppur dimostrate tutte con altrettanta certezza, attestano che non fu raggiunto ancora un vero assoluto, e neppure scientifico. È pur doloroso che, mentre s’avanzò tanto la cognizione e dei caratteri e delle lingue egiziana e babilonese e persepolitana, restiamo così indietro quanto alla etrusca, fino a non accertare a qual gruppo essa appartenga.
Guglielmo Corssen ( Ueber die Sprache der Etrusker, Lipsia 1874) espone i lavori dei precedenti investigatori, cominciando dal favoleggiatore Annio di Viterbo, fino al Risi (Dei tentativi fatti per spiegare le antiche lingue italiane e specialmente la etrusca, Milano 1863); e riprovando lo Janelli, il Tarquini, lo Stickel... che l’etrusco reputano semitico, e peggio quei che lo danno per armeno, o finnico, o celto, o slavo; loda i nostri che, fino al Conestabile e al Fabretti, adoprarono la comparazione per attestarlo affine al latino, come egli pure lo crede. Valendosi dei tanti monumenti scoperti ed esaminati ultimamente, e argomentando sull’epigrafia, l’archeologia, la onomatologia, la fonologia, lo crede idioma flessivo, di stipite indo-europeo, di famiglia italica, poco differente dall’osco, dall’umbro, dal latino, ma più duro, con inasprimento, e molte consonanti, con caratteri affini agli altri idiomi italici. Alla sua opinione contrasta l’autorità di Dionigi di Alicarnasso, che, al tempo d’Augusto e mentre vivea Varrone, cercando in Roma le antichità italiche, asseriva che gli Etruschi nel vivere come nel parlare erano dissimili dalle altr
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