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AI Voice AudioBook: Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15) by Cesare Cantù

AudioBook: Storia degli Italiani, vol. 10 (di 15) by Cesare Cantù

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STORIA DEGLI ITALIANI

DI CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE

RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

TOMO X.

TORINO

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1876

LIBRO DECIMOTERZO

CAPITOLO CXL.

Secolo di Leon X. Belle arti.

La vitalità de’ tempi repubblicani sopravvivea, portando all’attività e alla creazione; mentre dai modelli classici, che allora o si discoprivano, o meglio fissavano l’attenzione, imparavansi eleganza e correttezza. Da questo felice temperamento trae carattere il secolo di Leon X; secolo di tante miserie per l’Italia, eppure di bocca in bocca qualificato come d’oro, come un meriggio, sottentrato alle tenebre del medioevo: ma l’altezza a cui si spinsero le arti del disegno e quelle della parola, anzichè creazione de’ Medici, fu effetto dell’antica vigoria, che agitava l’Italia anche sul punto di perire.

Il bisogno di contemplare e imitar la bellezza visibile siccome scala alla suprema e immutabile, e di farla specchio alla coscienza meditatrice, alimentò sempre le arti fra noi: tanto che, ridotte quasi una parte della liturgia, si prefiggevano certi tipi e forme rituali, volendo esprimere piuttosto la visione dello spirito che la corretta imitazione della natura, raggiungere l’evidenza efficace dell’emblema piuttosto che la squisitezza della forma; piuttosto ispirare devozione e raccoglimento, che destare vaghezza e meraviglia; atti di fede insomma, meglio che prove d’abilità. All’ispirazione accoppiasi poi lo studio; dalle immobili rappresentazioni bisantine si passa alle libere e variate d’un’arte indipendente, la quale infine prevalse fin a proporsi anzitutto la plastica squisita, lasciva però di sembianze, scarsa d’affetto; traducendo la realtà della fisica, non interpretando i misteri della morale natura. Infine si torna a tipi convenzionali, non desunti dalla liturgia, ma da un maestro; e l’imitazione vaga o servile scostasi dal vero e dal bello, mentisce alla natura, mentre lascia perire ogni tradizione.

L’arte che il medioevo esercitò insignemente è l’architettura, mantenendole il predominio sopra le altre. L’ordine gotico, nato a piè degli altari, era giganteggiato in erigere chiese e conventi, sede e simboli della podestà preponderante allora; e il duomo di Milano, la Certosa di Pavia, San Petronio di Bologna ne sono tardi e insigni monumenti. Ma oggimai la civiltà e ricchezza de’ laici aumentate domandavano edifizj, che non potevano improntarsi di quel carattere jeratico; e come le lettere rifaceano i classici, così nelle costruzioni cominciò quel ritorno verso l’antico, che s’intitola risorgimento. Se la originale inventiva si fosse attemperata ai modelli antichi per ragionare meglio l’insieme, proporzionare le parti, ingentilire gli ornamenti, poteva uscirne un’arte cristiana e nazionale. E di fatto que’ nostri che primi si conformarono ai modelli dell’antichità, non rassegnaronsi alla servile imitazione; ma appurando la parte ornamentale, sbizzarrirono in modiglioni, candelabri, gemme e marmi colorati, ed animali e fiorami finissimi, intrecciati a fantastiche capresterie, dette grotteschi e arabeschi.

Tali occorrono spesso a Venezia, tali ne’ Miracoli di Brescia, nel mausoleo Coleoni a Bergamo, sulle cattedrali di Como e di Lugano, nella Certosa di Pavia: e fregi a porte, a pulpiti e pilastri, e candelabri in luogo di colonne, e finestre a somiglianza di compiuti edifizj sono finiti col fiato, anche se in posizione meno visibile; sempre di gusto squisito, anche quando d’artefici innominati: l’eleganza delle impronte rileva l’umiltà della terra cotta, della quale si compiacquero i quattrocentisti, e che resistendo al tempo meglio che la pietra, unisce alle variate forme quell’apparenza policromatica, che solo gli accademici sentenziarono di barbarie.

Dell’architettura romana, la quale attestava la maestà del gran popolo più originalmente che nol facesse la letteratura, non crederà che avessimo smarrite le tradizioni chi abbia posto mente alle costruzioni gotiche: pure al fiorentino Filippo Brunelleschi (-1444) assegnano il merito d’aver ricondotta quell’arte dall’immaginazione all’intelligenza, migliorata col volgere de’ secoli. Di Roma non istudiò soltanto gli avanzi classici, per rinnovare i calcoli delle forze, de’ materiali, delle spinte, e trarne esatto concetto de’ metodi di costruire, e di quel punto ove confinano l’ardimento e la temerità; ma meditò pure sui monumenti cristiani, e cercò la divina melodia del ritmo visibile.

L’appello fatto dai Fiorentini agli architetti d’ogni paese per voltare la cupola sopra Santa Maria del Fiore, lasciata scoperta da Arnulfo, fece sottigliare gl’ingegni; e che bizzarri spedienti non furono suggeriti! Uno diceva di ergere in mezzo un pilastro, cui attaccare le volte a maniera di padiglione; uno di empiere la chiesa di terra, con monete per entro, affinchè l’avidità di trovare queste inducesse a sgombrarla dopo cessatone il bisogno; e tali altri armeggiamenti, che, forse abbindolati dai cortigiani de’ Medici, furono raccolti dal Vasari. Vero è che nessuna cupola fin allora avea coperto un ottagono del diametro di quarantatre metri. Nelle antiche del Panteon, della Minerva Medica, delle terme imperiali, della villa Adriana, la calotta posa immediata sopra i muri di sostegno, senza pennacchi. La cupola di San Marco a Venezia misurava il diametro di quattordici metri, di diciotto quella di Siena, minore la pisana; tutte poi erano circolari, elevate sovra pendenze, che ripartivano il loro peso sui punti d’appoggio, disposti secondo il quadrato circoscritto al circolo della base. I concorrenti conosceano le forme, gli effetti, il pittoresco dell’architettura, non i mezzi scientifici di costruzione, ed ajutavansi con rinfranchi esterni; mentre il Brunelleschi ideò una mole che si reggesse da sè, e invece di rinunziare all’arco acuto, conquista del medioevo, comprese come la spinta in su venga corretta dalla sovrapposta lanterna, e da quella massa di marmo ne derivi la solidità. Vinte l’invidia oculata e la miope diffidenza, s’accinse attentissimo all’opera; sopra gli archi d’Arnolfo elevò un tamburo alto otto metri, e con aperture circolari, sicchè la volta insistesse sopra i sostegni con doppio sistema.

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